Cari artisti, studiosi e appassionati d’arte, ho deciso di scrivere queste parole, perchè mosso dall’incontrollabile esigenza interiore ed estetica di denunciare, dal mio punto di vista, l’impressionante deriva digitale del mondo dell’arte e della sua fruizione on-line: un fenomeno certamente iniziato già da diversi anni, ma in questi mesi reso ancora più evidente dalle conseguenze pandemiche.
Ho l’impressione che la frenesia isterica della contemporaneità non sostenibile e l’inquinamento sotto diverse forme del mondo reale, si stia spostando impercettibilmente e acriticamente verso il mondo digitale e virtuale, dando magari per scontato il fatto che ciò che proviene da un monitor di computer, tablet o smartphone, non sia in fondo così tossico come tutto ciò che proviene invece dall’esterno del mondo reale.
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Invece di accogliere gli aspetti positivi e preziosi del silenzio sociale di questi mesi, di apprezzare la drastica diminuzione o assenza di caos sonoro, di godere della depauperata saturazione visiva e informazione-disinformazione proveniente dal mondo reale, si sta assistendo ad una paura del vuoto che ci dirige, quasi acefali, verso il digitale, nobilitando a dismisura il virtuale, considerandolo cioè sempre e comunque “smart”, anche quando si presenta con evidenti limiti, stanchezze e aberrazioni soprattutto nell’ambito della fruizione artistica (arti visive e performative, escludendo ovviamente la digital/web art).
Al di là di ogni comprensibile (e si spera temporaneo) disagio provocato dalle misure di restrizione per il covid-19, mi chiedo se per noi artisti non sarebbe più sano e produttivo accettare con più consapevolezza la condizione che stiamo vivendo, accogliendo l’eccezionale e straordinaria occasione di silenzio in cui ci troviamo, per riflettere e meditare su ciò che si è fatto fino ad ora, nutrendo il nostro immaginario artistico per eventuali progetti futuri, invece di accettare e promuovere forme di esposizione mortificatrici del nostro lavoro.
È davvero cioè così necessario e impellente alimentare e saturare i canali digitali di informazione e consumo d’arte, il cui contenuto per forza di cose non viene mai preso in considerazione come si dovrebbe, generando forme di fruizione incompleta se non addirittura deformata e banalizzata da condizioni, modalità, tempi e risultati finali tecnicamente ed esteticamente assai discutibili?
Cosa rimane dell’esperienza di osservazione distratta e parziale di un’opera d’arte su un monitor di computer o smartphone, osservazione decontestualizzata e impacchettata da pubblicità e distrazioni audiovisive che rendono la fruizione e l’eventuale comprensione e apprezzamento del messaggio artistico scadente, se non nullo?
Vogliamo davvero illuderci di paragonare l’esperienza percettiva di un’esecuzione strumentale o vocale acustica (o persino amplificata) dal vivo, con una registrazione video di mediocre qualità tecnica, che quasi sempre inizia e finisce ex abrupto, realizzata in fretta e furia e senza le condizioni acustiche, architettoniche e fotografiche ideali, solo per autoilludersi o illudere gli altri della nostra (pseudo) esistenza sul web, con la conseguenza di inviare messaggi equivoci e spesso di bassa qualità artistica e contenutistica?
E cosa dire delle letture poetiche, delle interpretazioni teatrali o musicali devastate in foto o in video da brutture quotidiane e approssimazioni che non contribuiscono di certo a fornire un messaggio di semplicità e immediatezza, di spontaneità o genuinità (come spesso si vorrebbe far credere), ma di pochezza interpretativa e mediocrità estetica?
Mal educando i non addetti ai lavori, il pubblico medio da social e gli operatori e politici alla sciatteria digitale indiscriminata (nata col pretesto del coronavirus), non si rischia di abbassare così la coscienza critica e la capacità di discernere tra mondo amaetur e professionale, tra meme e disciplina, tra improvvisato e prodotto? E perchè poi ci sorprendiamo e ci indignamo quando si devono affrontare questioni di onorario e produzione?
Rendiamo davvero giustizia al nostro lavoro conformandoci a ciò che richiedono i blog, i social, le paginette web improvvisate, i forum e le riviste d’arte create dall’oggi al domani dal primo “curatore” non qualificato, i concorsi online, le mostre virtuali, i contest digitali, le interviste in “pillole” spezzettate da frasi decontestualizzate e involgarite da grafiche e musichette oscene, semplificando a tutti i costi anche concetti e messaggi articolati col pretesto di divulgarli per ottenere sempre e comunque apprezzamenti solo quantitativi ed eventualmente profitti da queste pratiche di gregge?
Perchè esporsi in maniera così poco consapevole e a tutti i costi, pur di colmare illusoriamente questo “horror vacui”, quest’isola di vuoto e silenzio per molti aspetti prezioso e irripetibile, occasione per ripensare la nostra funzione nel mondo come artisti o fruitori d’arte, o magari ridimensionare il nostro ego pompato da facili “like” e apprezzamenti digitali non sempre sinceri?
Forse non ci rendiamo conto del fatto che questa corsa ossessiva all’iperconnessione e consumo digitale di arte, spesso non è motivata da una legittima e genuina necessità interiore dei fruitori o appassionati, ma costituisce semmai pane per i denti per chi vuole sfruttare ancora di più il già problematico mondo lavorativo degli artisti, e di conseguenza semplificare e banalizzare attraverso il web l‘arte in categorie e contenitori commerciali, decontestualizzandola e mortificandola, gettandola indiscriminatamente dentro il calderone amorfo e superficiale dell’entertainment, veloce e immediato, da consumare nel tempo di un lecca-lecca. Col risultato di ottenere da tutto questo consumo e iperpresenza digitale di arte e artisti, una preoccupante se non inesorabile saturazione e livellamento di ogni messaggio estetico, abituando il fruitore a una idea di facile produzione e accesso all’arte, operazione di cui prima o poi pagheranno il prezzo gli stessi artisti, o almeno quelli mossi da una autentica esigenza espressiva.
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Sento già risuonare nella mia testa eventuali commenti di chi magari interpreterà più o meno istintivamente queste mie parole come apocalittiche o catastrofiste, snob o retrograde, o che addirittura inneggiano alla censura della democrazia o della “libera espressione” artistica. Ma spero che una lettura senza pregiudizio o proiezione personale su queste considerazioni, aiuti a riflettere almeno un po’ su quanto l’inquinamento e iperconsumo digitale dell’arte in fondo non aiuti l’arte, ma la impoverisca e banalizzi, danneggiando il nostro immaginario e fagocitando la nostra “umana” capacità di sorprenderci sulla bellezza e complessità del mondo, violentando l’anima e la magia di un’esecuzione, di una lettura, di una contemplazione di un’opera, almeno fino a quando disporremo di un corpo in carne ed ossa e vivremo in uno spazio composto da elementi chimici.
Termino qui questo sfogo, manifestando la mia resistenza come uomo e artista a questa acritica iperpresenza digitale nel mondo dell’arte, soprattutto in questa delicata fase della nostra storia.
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Provo una profonda tristezza nel vedere un capo inclinato verso un monitorino di pochi centimetri quadrati cercando di godere della bellezza e complessità di un’opera d’arte dentro una sala di un museo o galleria, di una recitazione in un teatro o arena, di un film in un cinema, di un’esecuzione musicale in un auditorium o teatro d’opera. Perchè la percezione e fruizione del messaggio estetico di queste forme d’arte, non può essere equiparata al digitale, al di là di ovvie analisi legate a funzioni economiche e tecnologiche.
Ma pare che ci si stia abituando ad accettare culturalmente ed inesorabilmente il fatto che non sia così. Purtroppo.
Angelo Sturiale, Zafferana Etnea, 15 aprile 2020
Caro Angelino del cuore e della mente. Parole giuste e Non posso fare altro che apprezzare, condividere e anche ringraziandoti per questo post di chiarificazione. Presto e sono sempre con te. Ciao