sul silenzio

di Laura Lombardi

A  scorrere in queste settimane i giornali e soprattutto i social network, ci si imbatte di continuo in articoli più o meno catastrofici, non solo nel comunicare dati oggettivi e sconfortanti, ma anche nel fare previsioni apocalittiche, talvolta ragionevoli e condivisibili, attirando l’attenzione su quanto la situazione attuale sia effetto dell’inarrestabile corsa (che poi tanto ‘inarrestabile’ si è rivelata non essere) della nostra società, tal altra invece farneticanti, nel delineare complotti, guerre planetarie, scenari da fine del mondo suffragati dalle fake news che però diventano post verità ovvero verità di cui nessuno verifica veramente la fonte. Tra toni più o meno moralizzanti, illuminanti o irritanti, quasi tutti concordano nel pensare che, quando l’emergenza sarà finita, nulla sarà più come prima. Resta però un certo grado di aggressività a ricordarci che il Covid19 non ci ha ancora veramente ‘piegati’ e serpeggiano le polemiche sui comportamenti dei singoli (cani, bambini, corse, passeggiate nella città, specie d’arte, deserte…). Tutte le nostre attività sono controllate rigorosamente da kafkiani moduli di autocertificazione e dalle telecamere – e qui penso alla serie Nacht del fotografo Thomas Ruff (1992) – strumenti dotati di nuovi software appositamente studiati, sbandierati dalle istituzioni, come se la sicurezza che manca nella sanità, dopo atroci tagli ventennali, potesse essere compensata dalla sicurezza garantita dalla tecnologia. E proliferano infatti i dibattiti intorno alle teorie di Michel Foucault.

Questo chiassoso scenario sui social – ogni giorno si è raggiunti da mille post ironici su whatsapp e dagli inviti in chat di lavoro o di amici – contrasta col silenzio esterno, affascinante ma anche un po’ lugubre, rotto dal suono delle sirene e dalle carte che rotolano nelle strade vuote, spinte dal vento, come nella Peste di Camus. Tuttavia, pensando al silenzio vengono alla mente anche immagini della fine del XIX secolo, vere e proprie celebrazioni di quella condizione ‘ambientale’ ma anche metaforica, con sfaccettature visionarie. Non più il ritiro dalla vita attiva del decadente Des Esseintes, nel romanzo À rebours di Joris Karl Huysmans (1884) – lo scrittore e critico cui è stata recentemente dedicata una mostra a Orsay “sous le regard de Francesco Vezzoli” – chiuso nella sua ricca dimora parigina tra quadri antichi e del prediletto Gustave Moreau, coi pesanti tendaggi a velare qualsiasi intrusione ‘naturale’ in un ambiente sontuosamente artificiale, bensì invece un ritiro in luoghi più rarefatti dominati da quella semplicità che il gusto delle stampe giapponesi aveva portato in Occidente, dopo la riapertura dei mercati e metà del secolo, e che subito è raccolto da un pittore quali Whistler.

F. Khnopff, I lock my door upon myself, 1891, Neue Pinakothek, Monaco di Baviera

Ricordo il dipinto del belga Fernand Khnopff, I lock my door upon my self del 1891, titolo ispirato a un poema di Christina Rossetti, moglie di Dante Gabriele Rossetti, a siglare la condivisione spirituale con la confraternita di artisti inglesi, che nel 1848 aveva fuggito Londra per il ritiro in campagna. Vi è raffigurata una donna dalla chioma fulva e gli occhi chiarissimi e allucinanti, chiusa nella sua casa, seduta a un tavolo con i gigli sfioriti e alle spalle la statua in gesso dell’ Hypnos di Scopas, con l’ala dipinta di blu, accanto all’immagine dello scorcio di una città vuota, silente, quella Bruges la morte cui l’amico Georges Rodenbach aveva dedicato un romanzo, riconoscibile dal canale, ma d’atmosfera analoga a quella di  altri dipinti di Khnopff con villaggi delle Ardenne, deserti. In un pastello – che figurava anche alla mostra dedicata a Khnopff al Petit Palais lo scorso anno – la sorella del pittore, Margherite, con la mano coperta da un lungo guanto, porta il dito sulle labbra, a richiamarci al silenzio per lasciare parlare la voce interiore (Le silence, 1890). Pensieri condivisi da molti intellettuali e artisti di allora, divisi tra l’imperativo di svolger un ruolo nella società e l’aristocratico desiderio di esilio, per il timore di ‘perdersi’, di dover rinunciare alla ricerca di una realtà più profonda, oltre le apparenze, depurata anche dalle troppe parole espresse dai decadenti, alla ricerca di una concentrazione espressiva capace di ridare un senso alle “parole della tribù” come scriveva infatti Mallarmé.

F. Khnopff, Le silence, 1890, Royal Museums of Fine Arts, Brussels

La venerazione per il silenzio – espressa anche dal critico Camille Mauclair in un volume che riunisce saggi su arte, letteratura, teatro e musica, intitolato L’art en silence (1901) – richiama alla mente la riflessione di Walter Benjamin, ispirata agli scritti di Baudelaire, sulla qualità profondamente “auratica” che il silenzio possiede: l’uomo moderno avverte l’esigenza nel mondo dell’informazione, delle mediazioni, di far silenzio e subisce l’inquietante estraneità di ciò che invece, proprio nel silenzio, torna come aura, come apparizione alterante. Quindi, se nei Petits Poèmes en prose (pubblicati postumi nel 1869, ma concepiti tra il 1855 e il 1864), Baudelaire racconta di un poeta che, avendo perduto la sua aureola nel fango della strada, non se ne cura, e non la raccoglie, perché ciò gli permetterà di mescolarsi alla folla, nondimeno l’aura, quel “singolare intreccio di spazio e di tempo, apparizione unica di una lontananza” per dirla con Benjamin, permane nelle menti di chi concepisce la creazione non solo come espressione dell’effimero e del transitorio.

Tuttavia, il silenzio che ci è imposto in questi mesi diviene assordante, e i pensieri qui evocati possono suonare quasi sinistri. E si rischia di incorrere nello stridore provocato dalla giornalista di “Le Monde”, che, partecipando alla rubrica lanciata dal quotidiano francese sugli scrittori e la quarantena, ha pubblicato suoi pensieri bucolici insieme a vedute dalle finestre della sua isolata casa di campagna. Un atto criticato nei social, tanto che in un blog è stata presentata, a commento, un’eloquente immagine che mostra uno stendardo appeso sulla facciata di un edificio con la scritta: “la romantización dé la cuaraniena es privilegio de clase”.

(Estratto di un più ampio scritto, pubblicato su https://antinomie.it)

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