«Mani che si stringono – immenso dossier romanzesco»*: sentire aptico, parte prima

di Valentina Bartalesi

R. Bonvie, Dialog, 1973. Courtesy dell’artista

Esistono, o possono esistere, forme molteplici di resistenza. La pandemia di Covid-19 ha imposto globalmente limitazioni, richiedendo un ripensamento radicale della nostra quotidianità. Le cartografie che ci avviamo ora ad immaginare timidamente, nell’incertezza di un tempo virale, sono per certi versi ancora ibride, localizzate nella virtualità apparentemente illimitata di uno schermo piuttosto che tra gli strati della realtà atmosferica. Il distanziamento sociale, locuzione che coglie correttamente il punto, ma che non evidenzia sufficientemente le modalità, ci ha messo di fronte all’impossibilità di un contatto fisico con l’altro. Ciò che il virus tuttavia non ha potuto inibire è l’immaginazione del contatto con l’altro. Una ben magra consolazione, si dirà: ed in effetti è increscioso controbattere, tentando di offrire valide argomentazioni per rendere meno amara la rinuncia. Tuttavia, è pur vero che la qualità che spesso viene associata all’amata o all’amato, non concerne immediatamente il contatto materiale, dalla radice latina di contactus/contingere ovvero “toccare”, quanto la sua controparte proibitiva, la sua natura di veto. L’essere amato è, in prima istanza, l’intoccabile e l’intangibile. Riscontrare come tali caratteri possano descrivere il rapporto che si instaura tra noi e l’opera d’arte, sovente oggetto di un godimento cerebrale, contemplativo e disincarnato, potrebbe non essere fortuito: lasciamo momentaneamente in sospeso la questione. Per tornare alla vitalità negativa del contatto, cito una passaggio tratto da una densissima analisi di Jacques Derrida sul tatto in Jean-Luc Nancy, che mi pare colga in modo impareggiabilmente elusivo il nodo della questione: tra eccesso e mancanza del toccare, scrive Derrida, si annida l’«impossibile sublimità del tatto, la macchinazione diabolica dell’amore, quando detta la rinuncia infinita» (J. Derrida, Toccare Jean-Luc Nancy, Marinetti, 2019, p.). Siamo nel regno delle rinunce e delle macchinazioni luciferine, che si sospettano essere autoimposte. L’immaginazione tattile, viscerale, del contatto con l’altro, può trovare riscontro nel termine “aptico”, che non casualmente titola il paragrafo da cui ho tratto la citazione di Derrida. Si tratta di un termine polisemico, spesso assente dai vocabolari, come già notava Marco Belpoliti in un bell’articolo uscito su “Doppiozero” (M. Belpoliti, Touch, in “Doppiozero”, 27 maggio 2017), che assume connotazioni differenti a seconda dell’ambito disciplinare che si decide di privilegiare.

H. Nagasawa, Oro di Ofir (con mano), 1971. Courtesy dell’Artista

A fronte di questa complessità, sceglierei una definizione per certi versi atipica e parziale, ma credo eloquente. Ad esergo del catalogo della collettiva Aptico. Il senso della scultura, curata da Jole de Sanna presso il Museo del paesaggio di Verbania nell’estate del 1976, si legge una definizione corale formulata dalla stessa de Sanna insieme a Luciano Fabro, Hidetoshi Nagasawa e Antonio Trotta che recita: «Una scultura è l’immagine che un artefice suscita nella materia secondo fini e modi ispirati dalla sua idea e senso. La scultura tiene chi la vede per la carne: questa unione forma un senso ulteriore, il senso aptico (apto = toccare, aderire, unire, legare, insieme), il senso della scultura. Il breve saggio-catalogo, che ripercorre sagacemente la storia della scultura da Fidia sino agli anni Settanta, reca in copertina un dettaglio del Ratto di Proserpina di Bernini (1621-1622), fornendo un exemplum da manuale per la comprensione del sentire aptico. Un close-up in scala di grigi inquadra la mano di Plutone che affonda le dita nella coscia di Proserpina: sotto la pressione dei polpastrelli, la pelle marmorea della dea si screzia in una costellazione di concavità. L’effetto Pigmalione può dirsi compiuto, il marmo appare morbido come la pelle e forse ancor di più, la superficie propaga il lucore tipico del burro. L’esempio portato restituisce l’aspetto più carnale e sensuale dell’aptico, senza tuttavia esaurirne le potenzialità. Perché, come giustamente nota Micla Petrelli è egualmente necessario stressare le qualità del tatto quando esso agisce in absentia, ovvero non coinvolgendo il «corpo aggettante delle cose», ma riscoprendo «la sua vocazione a rappresentare il conoscere analitico» (M. Petrelli, Tatto. Un senso intelligente tra processi percettivi e esperienza estetica, in “Piscoart” n.5, 2015). Integrerei il postulato di Petrelli ampliando la conoscenza dall’analitico all’emozionale. La sequenza iniziale di un celeberrimo film viene in nostro aiuto per meglio visualizzare entrambi i momenti della percezione aptica.

I. Bergman, Persona, 1966


Persona di Ingmar Bergman del 1966 si apre con una sequenza tra le più incisive della storia del cinema. Di particolare interesse risulta la sinossi dell’ultimo minuto della medesima introduzione. Un bambino si gira tra le lenzuola di un letto-feretro, sfogliando le pagine di Un eroe del nostro tempo di Lermontov (1840), per poi sollevarsi e avanzare verso di noi: con un’espressione indecifrabile, esplora con il palmo delle mani la superficie dello schermo cinematografico: pare toccarci. Tramite il montaggio, il punto di vista viene poi istantaneamente ribaltato, così che lo spettatore si scopre immerso nello spazio filmico. I frames che seguono sono altamente indicativi. Ripreso di spalle, il bambino procede nella sua meticolosa esplorazione, sfiorando con le dita la superficie di uno schermo sul quale si alternano i volti di due donne, in un arditissimo primo piano. I personaggi versano nel più completo anonimato: le mani del bambino percorrono con ritmica acribia i lineamenti dei volti femminili, destinati ad alternarsi in un progressivo effetto di sfocatura. Per adottare un termine caro a Giuliana Bruno ci troviamo dinnanzi ad una “cartografia” del manchevole e ad una possibile visualizzazione del sentire aptico, che potrebbe essere sintetizzato nell’avvertirsi visceralmente coinvolti nel toccare una mancanza. Aptico e tattile non sono dunque sinonimi, bensì sussistono in un rapporto di estensione: l’aptico ci coinvolge in quanto creature interamente epidermiche, in movimento e consapevoli della nostra posizione nello spazio. Siamo creature toccanti anche quanto non tocchiamo concretamente.

K. La Rocca, Le mie parole, 1973. Courtesy dell’artista

Un ulteriore caso di visualizzazione può essere riscontrato nell’opera Le mie parole (1973) di Ketty La Rocca. La Rocca mina alla radice la supremazia del logocentrismo, facendo collassare il significato nella paralogia e privilegiando la non verbalità del gesto. L’aptico assumerà allora una portata procedurale per l’artista e per il corpo delle spettatore. Non solo perché, osservando una fotografia di mani intrecciate ne ricostruiamo mentalmente lo «schema motorio», grazie all’attivazione dei neuroni specchio (V. Gallese), ma perché l’artista acuisce la dimensione materiale dell’incontro tramite l’impiego “toccante” della calligrafia. La mano scrivente si comporta infatti come un dito, colmando letteralmente le pieghe della pelle e ripetendo in modo ossessivo uno shifter destinato ad assumere, a seconda del contesto, un significato differente: you. Sarebbe del resto riduttivo circoscrivere l’aptico esclusivamente alle interazioni umane o alle peregrinazioni della mano. O meglio, lo si potrebbe fare, dotando la mano di vita propria ed inseguendola in preda alle sue memorie tattili e alla mancanza che avverte della sua “persona”. E’ ciò che accade all’incirca nello struggente film d’animazione J’ai perdu non corps (2019) di Jérémy Clapin, vincitore al Cesar 2020 dell’omonima categoria con una narrazione potentemente introspettiva del corpo-frammento.

J. Clapin, J’ai perdu mon corps, 2019

Il punto, e arriviamo all’argomento di un possibile secondo capitolo, è che la materia, le tecniche di lavorazione e persino la modalità espositive possono stimolare la nostra sensibilità aptica. Cosa accomuna un dispositivo iPhone, le sculture di Jeff Koons e la depilazione brasiliana? Le suggestioni che potrebbero balenarci inconsciamente in mente sono riportate nero su bianco da Byung Chul-Han, ideatore della smussata triade, che individua il fil rouge nell’ «impulso aptico» tipico della «società della positività» che rifugge ogni elemento negativo in favore di una «levigatezza» priva di screpolature (B.C. Han, La salvezza del bello, Nottetempo, Milano, 2019, p. 11). Nella proliferazione di immagini di cui siamo vittime e carnefici, nell’istantaneità incessante di un tempo congelato nei confini di uno schermo, appare quanto mai necessario ricalibrare il nostro essere presenti, corporeamente presenti, nello spazio. Che rapporto può esistere tra aptico, digitale e museologia? Nella speranza che su questo tema possa avviarsi un dialogo, prometto presto di fornire qualche possibile spunto.

C. Henrot, Grosse Fatigue, 2013. © Camille Henrot
Courtesy the artist, Silex Films and kamel mennour, Paris

* R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, 1979, p. 57.

Un pensiero riguardo “«Mani che si stringono – immenso dossier romanzesco»*: sentire aptico, parte prima

  1. Ciao Vale!
    il linguaggio è un po’ fuori dalla mia portata, e quando mi capita così…di non essere in grado di comprendere intellettualmente (ed ho iniziato a sperimentarlo proprio sulla Bibbia), allora provo a cogliere come le suggestioni del testo coinvolgano invece la mia immaginazione e le mie emozioni.
    E allora ti direi così, liberamente…nel tuo scrivere c’è un incedere ossimorico che mi coinvolge, e questa modalità di definire qualcosa parlando dei contrari che lo delimitano, lo interpellano o evocano …a me sa comunicare sempre qualcosa di profondamente esistenziale, trascendente, divino…è un mistero talmente grande che noi possiamo dirlo solo accostando il “tutto” e il “niente”.

    Non so se ho colto quanto scrivi, ma mi ha dato certamente occasione di rileggere un rapporto di amicizia epistolare che descriverei come il modellarsi di un’opera d’arte in cui il non toccarsi, vedersi e parlarsi di persona non impedisce di appartenersi, e forse la distanza (a mio avviso anche quella del tempo, nella forma non dell’assenza dell’altro ma della sua attesa) permettono di raggiungere intimità e unioni che appagano anche la carne.
    Grazie ancora!

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