Il museo che non c’è: i tesori della storia in mostra all’Ateneo di Bari

di Laura Petronella

Su Radio 3 a partire dalle ore 22.30 del 15 aprile è disponibile il podcast sulla mostra “Il Museo che non c’è. Arte, collezionismo, gusto antiquario nel Palazzo degli Studi di Bari (1875-1928)” curata da Luisa Derosa e Andrea Leonardi. Il podcast è parte della serie Mostre Impossibili, Visite guidate ai Musei Italiani di Rai – Radio 3.

La mostra, inaugurata a Bari lo scorso febbraio nel Salone degli Affreschi dell’attuale Ateneo, in origine sede dell’antico Museo Provinciale, si sofferma sulla nascita di un’istituzione che è stata fondamentale per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico e artistico del Meridione. Il Museo provinciale è stato sempre un punto di riferimento per lo studio del Medioevo che per il collezionismo di età moderna, attirando nel corso degli anni personalità note del territorio italiano come Gustavo Frizzoni, Mario Salmi, oltre che studiosi di fama internazionale come Martin Wackernagel, Arthur Haseloff, Bernard Berenson e Edward Perry Worren.

Attraverso questa “mostra di ricerca”, così definita dal suo curatore Andrea Leonardi, e un originale progetto espositivo che racconta non solo quello che è accaduto “dentro” al Museo Provinciale, ma anche quello che è avvenuto “intorno” e “fuori”, si è invitati a riflettere e a lavorare per tornare a far vivere questa identità perduta di straordinario valore.
La mostra, supportata da un’attività di ricerca documentaria, ha potuto contare su prestiti concessi da diverse istituzioni come I Tatti – The Harvard Center for Italian Renaissance Studies, l’Archivio Centrale dello Stato, la Pinacoteca Metropolitana di Bari Corrado Giaquinto, la Gipsoteca del Castello Svevo di Bari, il Museo Archeologico di Santa Scolastica, il Museo Jatta di Ruvo, l’Archivio di Stato di Bari e della Città Metropolitana. Infine, grazie al Finanziamento della Regione Puglia per il tramite del Fondo Speciale Cultura e Patrimonio Culturale, la mostra ha potuto prendere concretamente forma in collaborazione con il Polo Museale della Puglia.

Veduta della mostra

La prima “opera” della mostra è proprio l’edificio in cui ha trovato posto l’antico Museo Provinciale, il Palazzo degli Studi di Bari, frutto di un progetto selezionato da una personalità di raffinata cultura come Emilio De Fabris. Il visitatore ha la fortuna di poter apprezzare alcune planimetrie del palazzo che sono illustrative delle sue diverse funzioni e disegnate dal vincitore del concorso nazionale per l’Ateneo della città di Bari presieduto da De Fabris, Giovanni Castelli.

Cardine dell’esposizione barese rimane ovviamente il racconto dei diversi elementi che hanno contribuito alla costituzione del ‘contenitore’ museale. Accanto alla componente archeologico-antiquaria troviamo il Medioevo riscoperto con i cantieri di restauro degli edifici religiosi pugliesi, splendidamente testimoniato dal ‘Capitello degli Schiavi’ del Maestro della Cattedra dell’abate Elia.

Il percorso espositivo prosegue presentando al centro della “gran sala” l’opera‘Sant’Antonio da Padova’ (1467) di Antonio Vivarini. Infine, troviamo il capitolo sul contributo del mercato dell’arte che si è rivelato essenziale per questo museo di nuova fondazione, narrato attraverso lo ‘Sposalizio mistico di Santa Caterina’ attribuito al Guercino, ma ritenuto da Roberto Longhi opera del genovese Domenico Fiasella.

Veduta dell’esposizione

Come accennato precedentemente l’esposizione racconta non solo quello che è accaduto “dentro” al Museo Provinciale, ma anche quello che è avvenuto “intorno” e “fuori”. Come nel caso di Bernard Berenson il quale, giunto in Puglia per la prima volta nel 1897, scoprì per puro caso il ‘San Felice in Cattedra’ di Lorenzo Lotto. Egli visitò inoltre il Museo nel 1907 e, attratto dal nucleo di opere del Vivarini in esso conservato, rafforzò il suo rapporto con la Puglia durato sino al 1952.

Il legame di Bernard Berenson con il territorio pugliese e i diari e gli schizzi di sua moglie hanno portato alla scelta di esporre in mostra il ‘San Felice in Cattedra’; il disegno di questa rappresentazione, accompagnato dalle considerazioni del celebre connoisseur, venne ritrovato tra le pagine del diario della signora Berenson. Per ciò che concerne il “fuori-museo”, infine, esso è ben rappresentato dalle inedite vicende di un collezionismo ottocentesco capace di dare forma a “contenitori” che nascono privati, ma che sin dalla loro origine, vengono aperti anche al pubblico con la missione precisa di “educare al gusto”. È quanto accaduto con il “museo” della famiglia Jatta nel suo palazzo di Ruvo, oggi in parte sede del Museo Nazionale, da dove è giunto per l’occasione un preziosissimo rhyton in forma di sfinge.         
Sempre in questa sezione, si racconta ciò che di eccezionale avvenne subito dopo il 1928, ovvero l’impegno di Federico Hermanin, tedesco nato a Bari e direttore di Palazzo Venezia durante il ventennio, che invierà nel capoluogo pugliese quadri dalle Gallerie Corsini e Barberini di Roma – tra cui il Luca Giordano in mostra – per inserirli tra i tesori conservati dell’antico Museo Provinciale – il Museo che non c’è più – dando così vita a una nuova e autonoma Pinacoteca.

Veduta dell’allestimento

La notizia che annunciava il lockdown il 9 marzo 2020 ci ha negato la possibilità di uscire, vivere la nostra quotidianità, coltivare i nostri hobby lasciandoci vuoti e, come noi, vuote sono rimaste le sale del museo. I ripiani del Salone degli Affreschi sono lì, imbarcati, a ricordarci del peso dei vasi e delle suppellettili che incantarono Ungaretti e che ora non ci sono più. Riflettiamo e lavoriamo su come tornare a far vivere questa identità perduta di straordinario valore. La difficile situazione sanitaria tuttavia non ha fermato la volontà di divulgare l’intenzione primaria degli organizzatori di ridare vita al significato storico del museo: essa è stata invece occasione per rendere la mostra più interattiva grazie alla pubblicazione di video-appuntamenti sulla pagina Facebook Storia dell’Arte Moderna – Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’.

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