Ce lo meritiamo Alberto Sordi critico d’arte? Le nostre piccole vacanze intelligenti

di Paolo Pastres

In occasione del centenario della nascita del grande Alberto Sordi sono stati riproposti, con ampi commenti esegetici, i suoi testi cinematografici più celebri e amati. Tra essi, anche il famoso episodio “Le vacanze intelligenti” girato nel 1978 e inserito nel film Dove vai in vacanza? Sordi ne firma regia e sceneggiatura, insieme al fido Rodolfo Sonego, e lo interpreta al fianco di Anna Longhi. La storia è molto conosciuta: due “fruttaroli” romani sono spinti dai figli, brillanti studenti immersi nella congerie culturale che li circonda, a rinunciare alla classica vacanza balneare a favore di un tour, appunto “intelligente”, per istruirli, alla scoperta degli etruschi, della musica Gestalt a Firenze e dell’arte contemporanea a Venezia (si noti che i due sono spinti a trascurare i luoghi “canonici” di quelle città, preferendo manifestazioni slegate dalla loro storia: il concerto potrebbe svolgersi a Roma o a Bellinzona), il tutto seguendo diete ferree. Indubbiamente un capolavoro della commedia all’italiana e una satira ferocissima – e alquanto qualunquista – sulle mode culturali dell’epoca, sulle relazioni tra genitori e figli e più in generale su un’Italia, allora immersa nel Terrorismo e nella crisi, che voleva a tutti i costi modernizzarsi tagliandi i ponti con la tradizione, anche a costo di un feroce salto generazionale. Tutto ciò premesso, il passaggio più noto e discusso di quell’episodio è la tragicomica visita alla XXXVIII Biennale veneziana “B78 Dalla natura all’arte dall’arte alla natura”. La coppia, quindi, si ritrova a contato con opere provocatorie, “spiazzanti”, e nonostante le spiegazioni proposte da un impeccabile e coltissimo Cicerone, tutto gli risulta incomprensibile, non tanto perché «sarà che semo noi che semo ignoranti», ma perché – è questo il sottotesto – mancherebbe proprio un senso in espressioni così distanti dalla figurazione. Quella divertente contrapposizione tra alto e basso, tra colti e incolti, eleganti e bifolchi – un meccanismo comico classico che funziona sempre – ci permette di rivedere installazioni che fanno ormai parte della storia artistica dei tardi anni ’70 del Novecento (pensiamo, tra le tante, al Muro di Mauro Staccioli, alle pecore di Menashe Kadishman, agli interventi di Gian Emilio Simonetti, Giuseppe Chiari, Richard Long e all’autentica poesia di Charles Simonds), ed è ormai divenuta un emblema dell’incomunicabilità tra l’arte contemporanea e i ceti popolari, relegando il discorso a una sorta di idioletto, comprensibile solo a pochissimi eletti, se non unicamente all’artista.

B78. Alberto Sordi, Anna Longhi e l’opera di Menashe Kadishman.

L’indiscutibile efficacia dell’episodio sordiano ha indotto non pochi a riflettere, da diverse angolazioni, sul rapporto tra artista-critica-pubblico: tema, che, a ben guardare, ha origine quantomeno a metà Settecento, ma certamente si è acuito nel corso del Novecento, fino a segnare momenti di crisi e forse a spezzarsi, come ci suggerisce Sordi. Dunque, molto si è detto e molto altro si potrebbe dire prendendo le mosse dall’incursione dei “fruttaroli” alla Biennale. Però, credo, valga la pena soffermarsi anche su un ulteriore aspetto, che, almeno mi pare, non è mai stato evocato a proposti di quel film, cioè la centralità-eccentricità dell’arte, nella fattispecie contemporanea, nel dibattito, o per meglio dire discorso, pubblico italiano. Mi spiego meglio: nel 1978 il più popolare comico italiano – l’italiano medio, nel quale molta parte del paese si rispecchiava e lui ne era consapevole – dedica una delle sue interpretazioni più riuscite a ironizzare sulla cultura, evidenziandone la distanza dal “senso comune”, e calca la mano sulle stranezze raggiunte nel mondo dell’arte (ma pure il modo con cui sono trattate la mania etrusca, la parodia del geniale 4’33’’ di John Cage o la caricatura dell’arredatrice à la page, non sono da meno), insomma contesta l’abbandono delle care vecchie piccole cose, anche se si cattivo gusto, che starebbero per essere soppiantate da assurdità, cui è interessata solo una élite colta e benestante, la quale ne ha decretato il valore e cercherebbe d’imporla – paternalisticamente – al resto della società. Una denuncia forte, comunque la si pensi, che affronta la questione del mutamento culturale e anticipa molti dei dibattiti, compresi quelli attualissimi, sullo scontro tra popolo ed establishment. Proprio il ruolo fondamentale allora attribuito a quanto esposto alla Biennale, mi induce a chiedermi: oggi sarebbe possibile rifare lo stesso discorso? Ironizzare sull’arte nel 2020 avrebbe ancora un senso? La provocazione “conservatrice” implicita nello sketch di Sordi avrebbe ancora un significato, sarebbe recepita o respinta? In altre parole, oggi, dibattere d’arte, contemporanea e non solo, è ancora popolare – nel senso di rivolto alle masse – e soprattutto continua a suscitare passioni?

Questo mi domando, rivedendo l’esilarante episodio, ma non so darmi una risposta definitiva. Infatti, da un lato rifletto che forse mai come ora la storia dell’arte è oggetto di interesse: le grandi mostre registrano presenze strabilianti, i cosiddetti esperti (Direttori, Professori, Curatori etc.) sono famosi e alcuni sono perfino divenuti oggetto delle attenzioni di Dagospia, esistono poi bellissime trasmissioni televisive che se ne occupano (addirittura ci sono canali dedicati unicamente all’arte, affiancando questa temanticità alla cucina, agli animali domestici, alle malattie imbarazzanti e così via, per non parlare delle video vendite, capitolo che meriterebbe un approfondimento a parte, magari sotto guisa di Lumpen Kusntliteratur), oltre a pagine di quotidiani, siti web, gruppi Facebook, e chi più ne ha  ne metta. Anche gli artisti sono celebri e il loro divismo, fin dai tempi di Andy Warhol è parte integrante dell’odierno “sistema dell’arte”. Eppure, la mia impressione è che il “prodotto artistico”, da Fidia a Banksy, per quanto conosciuto, sia sottratto a un vero dibattito pubblico, se non circoscritto agli addetti ai lavori, i quali, per altro, spesso si trincerano dietro specializzazioni che rasentano il settarismo, e tutto venga accolto con sonore banalità e acriticamente, come un dovere, cosicché il “non mi piace”, il “non mi interessa”, il “tutto qui?”, o il “questo lo so fare anch’io”, che credo molti pensano ma si vergognano a dirlo, restano celati nello scrigno dei desideri inconfessabili, vicino agli “atti impuri” e l’ancor più osceno Schadenfreude. Quelle affermazioni, che per quanto elementari sono pur sempre atti critici, non possono neppure essere più concepite, immersi come siamo sotto una cappa di Politically correct culturale, che sconsiglia di contraddire – anche solo con il pensiero – la sentenza dell’esperto, specie se espressa in televisione, il che conferisce ipso facto il crisma dell’ufficialità. D’altro canto, niente di nuovo, se consideriamo che la fruizione inconsapevole dell’arte era stigmatizzata già nel Settecento (pensiamo a Pelli Bencivenni, il quale riteneva che gli Uffizi fossero frequentati da torme di ignoranti che non capivano ciò che ammiravano e passavano di lì solo perché lo facevano in tanti e tutti lo consigliavano), ma la cosa lascia comunque perplessi e mi chiedo se tutto ciò sia inevitabile o meno.


B78. Giuseppe Chiari, “L’arte è una piccola cosa”.

Non voglio dire che ci sia sempre bisogno di qualcuno che gridi “il re è nudo”, anche perché quasi sempre i sovrano sono molto ben abbigliati (con buona pace del benemerito Sordi), ma, per restare nella metafora, forse qualcosa da eccepire sull’abito c’è e spetterebbe proprio agli “addetti ai lavori” affermarlo. Certo, qualcuno lo fa, ma sono voci flebili, che difficilmente approdano agli onori del pubblico dibattito. Ci vuole senz’altro coraggio a dire: quella mostra, nonostante gli alti patrocini e il sedicente illustre – per mancanza di prove – curatore, è banale e non vale la pena di vederla, è uno spreco di risorse; oppure che il nuovo acclamato artista è, se va bene, un bravo vetrinista e non vale niente. Affermazioni del genere costano, lo sappiamo, per cui al massimo un dignitoso silenzio o bisbigli amichevoli, con il risultato che alla fine, per quel che afferra il fruitore, sono todos caballeros. Sì, lo so, è un fenomeno generale, che non riguarda solo l’arte, anzi; anche se di converso assistiamo a processi contro figure del passato, che mettono in discussione comportamenti e idee lontane secoli e le giudicano severamente, in ennesimo spregio al sacro principio – così amavano definirlo gli avvocati d’antan – di irretroattività. Per altro, fenomeni simili si assistono pure nell’ambito della storia dell’arte: disciplina che potrebbe essere ritenuta troppo eurocentrica, in cui mancano voci femminili etc. Ma questa è un’altra questione e varrà la pensa riprenderla.

Invece, tornando alle Vacanze intelligenti, il punto di vista di Sordi, per quanto discutibile, era comunque l’espressione di un’opinione su qualcosa cui era attribuito un valore, tanto maggiore quanto più era in grado di dividere; mi sembra che 42 anni dopo l’arte, anche la contemporanea, non divida più – sia mai, il moud vuole la conciliazione – e di conseguenza non meriti un autentico confronto critico, un’indignazione, uno sberleffo o che so io. Dall’altro lato, ci sono ancora artisti e critici che vogliono lottare, com’è avvenuto tante volte, per difendere un loro punto di vista innovativo se non scandaloso.

B78. Cecilia e Matteo Venier alle prese con un’installazione di Richard Long, fotografati dal loro papà Nicolò.

Futuristi, dadaisti, surrealisti e così via erano condannati dai “benpensanti”. A distanza di un secolo sappiamo che i primi erano dalla parte giusta, ma, in fondo, ci interessano pure le ragioni degli avversari e forse senza il loro “passatismo” non avremmo avuto le avanguardie. Sarò cinico, ma credo che oggi Duchamp, nelle mani di un buon public relations, sarebbe intervistato con deferenza nei tg, e questo non sarebbe piaciuto a Tzara, ma poi, come si sa, bisogna sempre voltare pagina, così arriva il cuoco stellato a far dimenticare il provocatorio Orinatoio: alternanza dissacratoria che, penso, Tzara avrebbe invece gradito. Dunque, alla fine, se non c’è nulla su cui valga la pena di discutere e contrastarsi, o meglio polemizzare, vuol dire che in radice non c’è alcunché di significavo, al di là del convenzionale comunicato sulla bella mostra, il promettente artista o … e qui rinvio alla nota sentenza di Arbasino che ci conduce alla celebrazione del “venerato maestro”. A proposito, ma quanto ci manca l’Arbasino che diceva la sua, con tutti gli eccessi che gli erano concessi, sui fenomeni di massa, fossero letteratura, films, costume o arte, anche ridicolizzando, quand’era il caso di farlo, ben sapendo che tra chic e kitsch il passo è brevissimo, è sempre solo questione di equilibrio e di ingredienti giusti, come un gin-and-tonic o un Martini coktail, tanto apparentemente semplici quanto difficilissimi da fare bene. Dunque, piuttosto che vacanze intelligenti facciamo Piccole vacanze, e rileggendo Fratelli d’Italia, o Muse a Los Angeles, comprenderemo meglio che gli eventi culturali, su tutti le mostre d’arte (tra i tanti ricordi un po’ di maniera e un po’ sbagliati lo ha notato, mi pare, solo Giovanni Agosti), servono principalmente a far discutere, a creare una socialità che si ponga su un livello degno di essere vissuto, e non sono questioni per pochi debosciati semialcolizzati che nel luglio spoletino, in abito blu e cravatta petit poins con nodo rigorosamente stretto (l’Anonimo docet), shakerano, come niente fosse, Evelyn Waugh, Celine, Balthus, Lucien Freud, Elgar e Strauss, Richard – of course – quello giusto. Ma, un dubbio mi assale, fossero già state quelle delle vacanze intelligenti? Sia pure, non c’è lesa maestà, epperò, in fondo, chiedersi se è più “interessante”, diciamo così, Biancaneve o la Regina cattiva non è solo un esercizio di contradizione, tanto per épater le bourgeois, ma un modo per svincolarsi dal conformismo che ci impone un canone che non si può contraddire o mettere in crisi: la metafora di un prova di libertà, che è poi ciò che si richiede per primi agli intellettuali (mi pare che qualcuno abbia detto che gli storici dell’arte lo siano, anzi debbano esserlo, più di ogni altra categoria, ma forse persevero negli errori), e pure a tutti i non depensanti, se ce ne sono ancora (Carmelo, oh mio Capitano, dico Bene?). Comunque, per la cronaca, il vecchio Walt ci aveva visto giusto ed è di gran lunga da preferire la Regina, vuoi mettere.

B78. Charles Simonds, “Dwelling”.

Qualche anno fa, nel maggio del 2004, Maurizio Cattelan impiccò dei manichini, riproducenti con estremo realismo dei bambini, agli alberi di un giardino pubblico milanese, suscitando qualche timida protesta, anche politica, finché un residente, esasperato dalla inquietante visione e ritenendo di interpretare il sentimento comune, approfittando del favore delle tenebre tagliò le corde per mettere fine all’irritante installazione, ma sfortunatamente per lui cadde dalla scala e si ferì piuttosto gravemente, in seguito subì pure una condanna penale. Ecco, finalmente, un’opinione e una conseguente azione, per quanto esecrabile, che forse meritava un approfondimento. Mi pare però che di quell’episodio nessuno si sia occupato a dovere e soprattutto ne abbia tratto ispirazione per qualche commedia, eppure c’erano tutti gli elementi del tragicomico (l’antieroe, la pretesa velleitaria), compresa la classica scena dell’involontario ruzzolone, che di solito qualche risata la strappa, raccontando di una forma radicale di stroncatura e cercando di ricostruire, con il registro dell’ironia, il backgraund di una simile sciagurata scelta. Peccato, sarebbe stato interessante, penso ce ne fosse da dire, poteva proprio uscirne un bel ritratto dell’Italia d’inizio millennio. Sarà che non c’è più un Sordi o piuttosto sarà che l’arte non suscita più quell’interesse che spinge un regista a trarne pretesto per raccontare una storia, individuando un fenomeno in grado di interessare il grande pubblico? Fa un po’ eccezione il Sorrentino de La grande bellezza, con vena moralistica e pietistica, quando mostra la bambina prodigio costretta dai genitori a remunerative quanto drammatiche performances pittoriche, chiosate per quel che sono dalla saggezza romanesca di Sabrina Ferilli, qui degna erede dei nostro cari “fruttaroli”: “ma sta’ ragazzina piagne, ‘e basta!”.

In definitiva, ancora a fine anni ’70 l’arte, piacesse o meno, occupava un ruolo sociale (che poi, diciamocelo una volta per tutte, vuole dire politico), era oggetto di confronto, mentre oggi sembra non avere alcun impatto sulla popolazione, diciamo pure la famosa ggente. Un simile fenomeno, di espulsione dall’immaginario culturale, potrebbe essere pure considerato il definitivo suggello al fallimento dell’idea di “intellettuale organico”, che negli anni ’70 era ancora perseguita con fiducia. E qui potremmo addentrarci nella questione del passaggio, che mi sembra irrevocabile, di status del pubblico dell’arte: da attore, benché di fila, di una recita collettiva a consumatore di un prodotto che per definizione è buono e deve piacere. Si tratterà forse di sociologismo, romanticismo e moralismo un po’ alla buona? probabile, ma non credo di essere troppo lontano dalla verità delle cose.

A questo punto mi si consenta anche di addentare una personalissima madeleine: a quella famosa Biennale ci sono stato, bambino accompagnato dai cugini più grandi, all’epoca a fine liceo; tuttavia non ne ho conservato alcun ricordo preciso (si capisce, a me, che all’epoca vivevo a ridosso di una grande base USAF, incuriosivano unicamente gli F-4 Phantom II e/o l’eventuale loro applicazione USS). Però, ciò che importa, è che a quella rassegna mi hanno portato e soprattutto ci sono andato insieme ad adolescenti, che poco si interessavano d’arte, ma erano curiosi di conoscere e discutere dei fermenti culturali che li attorniavano, sebbene, questo lo ricordo, non gli piacessero e non mancavano di dichiararlo. Grazie alle Vacanze intelligenti, le cui battute si prestano ai commenti conviviali, ho avuto modo di appurare che la mia esperienza non è isolata, altri coetanei sono stati condotti dai genitori a visitare la stessa Biennale, suscitando commenti poco favorevoli, benché anch’essi se ne ricordino solo grazie al film.

B78. Mauro Staccioli, “Muro”.

Nell’ultima Biennale, quella del 2019, c’era molto da vedere e su cui dibattere, ad esempio, ho trovato emozionante la splendida Scala di Giacobbe di Sean Scully a San Giorgio, un’istallazione posta al centro di un edificio storico, temporanea, ma perché non stabile? Io l’avrei voluta mantenere, perché arricchiva, anche spiritualmente, l’ambiente. Ciò era possibile? Forse a qualcuno l’idea non piace? Non la ritiene adatta a un luogo sacro e tempio dell’arte veneta? Mah… non mi pare che se ne sia discusso più di tanto, eppure ce ne sarebbe da dire, anche solo limitandoci al sempre controverso rapporto tra contemporaneo e antico. Se quei commenti ci sono stati non li ho notati, e me ne dispiaccio, ma forse, al di là della mia ignoranza, è anch’esso un indice di qualcosa che non va, che è sottratto all’arena pubblica.

Chiedo a me stesso e a chi mi legge: l’arte – compresa pure la storia dell’arte nella sua accezione più ampia – occupa ancora un ruolo nella società o è solo una questione tra mercanti ed esperti professionali, cui tutti gli altri devono guardare in veste – per loro assai comoda – di spettatori silenti e sempre accondiscendenti? Oppure è ancora in grado di generare opinioni, anche contrastanti o urticanti, di creare un dialogo tra artista, critica e pubblico? Siamo dunque condannati a uno stadio di riflessioni che precede i Salons, in fremente attesa almeno di un nuovo La Font de Saint-Yenne, se non di un nouveau Diderot? Riflettiamoci sopra e discutiamone.


Sean Scully, La scala di Giacobbe verso il Cielo, Venezia, San Giorgio Maggiore, 2019.

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