Carol Rama, dipingere per guarirsi. L’artista, la donna e la ricetta per un’autotrasformazione che può essere chiamata “guarigione”

di Matilde Puleo

Portrait of Carol Rama

Nella critica d’arte si parla molto della funzione metalinguistica, secondo la quale la lingua ha in sé la possibilità di commentare o di chiarire sé stessa. Un’opera d’arte figurativa svolge la stessa funzione perché crea il suo specifico metodo di lettura. Dunque gesto, luci, colori e composizioni diventano elementi da trattare come strutture fondanti di una lingua particolare, creata dall’artista. Una lingua da conoscere non solo con gli occhi perché la sua grammatica non si riferisce esclusivamente alla mente logica. Al contrario, un’opera d’arte visiva permette all’artista di comunicare su molti piani, sia a sé stesso che all’osservatore. La questione del linguaggio quindi è così stratificata, affascinante e complessa da stimolare la nostra curiosità verso le relazioni e i significati che possono sorgere ad un’artista visiva che dice perché dipinge. Ed è l’unione dei due linguaggi (quello visivo e quello verbale) e la capacità di aderire a ciò che poi si troverà nei suoi lavori a rendere interessante una frase che non è da lasciare lì come semplice citazione. La frase è quella detta da Carol Rama “io dipingo per guarirmi” alla quale vorrei assegnare un peso importante. Quello stesso peso che fa dichiarare alla semiotica artistica che è innegabile l’aiuto fornito dal linguaggio per interpretare un’opera figurativa e che rende possibile chiedere alle parole e alle opere di un’artista quale sia la malattia e soprattutto quale la ricetta messa a punto nel corso di una vita.  Ed è infatti la vita privata dell’artista a risponderci. È dalla sfera riservata e familiare che veniamo a sapere che la malattia è la rottura dell’equilibrio tra il volere personale e la norma stabilita. Che i suoi sintomi sono il morso allo stomaco e l’inquietudine, il senso di inadeguatezza verso i dettami delle convenzioni sociali e l’orrore della condizione femminile verso le capacità distruttive dell’uomo. Della cura invece, della guarigione ne parla l’arte.  Quella dimensione creativa che le impone di considerare il dolore come fonte di conoscenza, in modo da avere una risorsa liberatoria che ristabilisce la salute mentale ed emotiva. Quell’attività che concepisce una superficie bidimensionale come luogo per appoggiarci il dolore e vederlo come capitale attivo da mettere in gioco senza veli. Carol Rama scopre così che il suo dolore è il riflesso del mondo interiore ma anche messaggio auto educativo. Un messaggio detto in una lingua interiore che si fa balsamo da mettere sulla ferita.  Carol Rama cerca e conosce piano piano questo linguaggio. Sa che è necessaria la curiosità e che il compito è quello di dipingere lucidamente ciò che vede e sente in modo da costruire la ricetta per l’autotrasformazione che lei chiama guarigione. Guarire dall’oppressione del potente e dalle relazioni affettive trasformate in giochi di supremazia però, pretende un processo lungo fatto di parole e di significati da assegnare a ciò che si fa.

Carol Rama, Appassionata, 1940, acquerello e matita su carta, Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris.

Carol Rama ha un pennello da adoperare come riparo e arma. In sette decenni d’attività questa ricercatrice inventa un abecedario visivo atto a raccontare il corpo femminile e la sua sessualità sia in età consone che nella scandalosa vecchiaia. La sessualità di corpi sani e malati che bramano e si confrontano col dover fare. In questo nuovo lessico, il corpo femminile presenta varianti mutilate e minacciose, violente ma anche cariche di desiderio, e ciò che si vede è sempre attivo e vitale. La tavolozza espressionista ha il solo compito di puntellare l’intensità coloristica di quelle vulve e di quelle lingue sicuramente sovversive.  Immagini ribelli che guardate oggi testimoniano ancora una resistenza attiva alle forze che vorrebbero dominarle e alle istituzioni che vorrebbero soggiogarle.

Carol Rama, Dorina, 1945, acquerello su carta, Collezione La Gaia, Busca, Italia

Carol Rama non studiava la semplice variazione di un tema pittorico; non le premeva il mercato e chiaramente la disattenzione era reciproca. Perfino gli storici dell’arte si accorgono molto tempo dopo di lei eppure, l’artista è stata interprete di uno specifico momento storico e artistico pur non avendo mai fatto parte di alcun raggruppamento, né nella sua città Torino né altrove. Con lei come dicevo la questione sta nel linguaggio e nel significato da assegnare alle parole che sarebbero diventate norme di vita, come libertà/necessità. Parole che le permettono di attraversare periodi e movimenti artistici con la libertà – appunto – di chi saggia il cuore per constatare lo stato di salute.

Carol Rama, Appassionata I, 1998, acquaforte su zinco.

L’attenzione al quotidiano le apre ovviamente infinite possibilità espressive.  La volontà di interrogarsi la avvicina nel 1944 alla carnalità dell’Informale più materico.  Evidentemente era questo il solo modo di trattare l’autobiografia di una donna autentica che protesta, soffre e osserva la vita di una madre chiusa in ospedale psichiatrico e di un padre suicida. Poi, l’avvenuta catarsi e il bisogno di pulizia e rigore. Quelle che trova nell’ortodosso astrattismo del MAC. Dimensione spirituale alla quale non rimane affezionata nonostante la portasse a sperimentare una fervida attività espositiva. Lei non si ferma.  La stima e l’amicizia di Felice Casorati e di Italo Calvino non la fermano, così come non la ferma la sua prima partecipazione alla Biennale di Venezia. L’arte come sempre si fonde alla vita e quel destino che le riserva drammi reclama qualcosa di diverso dal rigore. Evidentemente il formalismo ora la limita e le impedisce di gestire i furori che la animano. Arriva così ai cosiddetti bricolage degli anni ’60, dove a cinquant’anni l’artista impara a dosare le sue forze, senza nulla togliere all’espressività. Informale, espressionismo astratto e neo-dadaismo convergono in un linguaggio unico che ruota intorno al bisogno di aderire a sé stessa. Solo in questa chiave metanarrativa è possibile comprendere come ogni passaggio stilistico segua l’altro con la consequenzialità della vita vissuta. Da questa auto-osservazione, ogni opera diventa testimone e traduce il cambiamento artistico in una partitura nella quale il pennello è chiamato a scrivere il cambiamento di sé.

Carol Rama, Gotica, 2005.

Questa perenne domanda a proposito delle azioni che può o non può fare e delle aspettative che il mondo ha sulla sua persona le dimostra come le inquietudini non vengano mai sopite. Negli anni ’70 l’artista nata nel ‘18 raggiunge un’astrazione concettuale, che racconta la distensione e la capacità meditativa dell’intellettuale. È qui che si collocano le camere d’aria di bicicletta stirate, lisce e in tensione. Metafora di organi sessuali appesi a ganci metallici, le gomme non sono mai trattate come semplice oggetto di rifiuto, ma come materie simili alla pelle umana prodotte in serie, frutto di un processo costruttivo terribilmente freddo e artificiale. Ancora corpi dunque che nel decennio successivo recuperano l’esigenza verso la figurazione e la portano di nuovo verso la pittura. Lasciando aperto il varco della memoria, compaiono corporature senza mediazioni, masse esibite nelle stesse nudità degli anni ‘40 con vagine esposte, angeli e geometrie disegnate su carte preesistenti, a narrare ancora una volta la stratificazione di una vita in continuo divenire.

La passione secondo Carol Rama, exhibition view at GAM Torino, 2016, photo Giorgio Perottino.

Esattamente come quelle che appartenevano alla serie intitolata Appassionata, anche queste ritraggono paure, metamorfosi, bambole e manichini su letti di contenzione o su sedie a rotelle, con cappelli eleganti o fiori sui capelli, come segni erotici e trasgressivi. La stessa carica erotica che le vedevi nel 1980 quando Lea Vergine la coinvolse nel suo recupero della dimensione femminile dell’arte d’avanguardia e poi nel ’93 nella sua sala personale alla Biennale, quando parlando di sé la vedevi fermarsi un attimo, lasciandoti il tempo per ammirare la fronte incorniciata dalla lunga treccia di capelli dorati, segno evidente del fatto che fosse finalmente guarita. Rifiorita e curata da un realismo porno brut da dove esplorare l’ignoto. Rimedio efficace che le ordinava il coraggio di dire di sé fino in fondo. Perché è da qui che la disfatta viene sorretta.

2 pensieri riguardo “Carol Rama, dipingere per guarirsi. L’artista, la donna e la ricetta per un’autotrasformazione che può essere chiamata “guarigione”

  1. Come spesso mi accade quando ti leggo Matilde , anche questo scritto sulla guarigione o manifestazione /narrazione pittorica del dolore , tutta al femminile mi appassiona !
    Tonina Tanda

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