di Lorenzo Aldini
Le immagini di Piazza san Pietro non erano mai state così struggenti. Una preghiera solitaria e piovosa al crepuscolo del 27 marzo annunciava tempi nuovi coi quali l’umanità si sarebbe dovuta confrontare senza indugi.
Nella prospettiva di un futuro distopico, contaminato di medioevo e di fantascienza, la solitudine di Papa Francesco risvegliava la quinta scenografica del sagrato di San Pietro in una luce inedita. Senza turisti né pellegrini, il colonnato monumentale di Gian Lorenzo Bernini dava rilievo alle sculture sulle balaustre: santi e martiri rianimati per l’occasione, quasi eccitati dall’imminenza di un giudizio, se non universale almeno in mondovisione.
Anche le celebrazioni della Settimana Santa dovevano svolgersi secondo le norme imposte dall’evidenza scientifica della pandemia: pochi sacerdoti socialmente distanziati sotto la cupola della Basilica, con la presenza simbolica di un manipolo di fedeli, uno per panca accanto al baldacchino berniniano. A casa come tutti in questa Pasqua di pandemia, confidavo nella regia di sapienti telecamere che avrebbero restituito al mondo le immagini di un rito intimamente legato alla Basilica, un momento religioso e al tempo stesso artistico, senza rumore di fondo. Quello che Bernini aveva immaginato stava per realizzarsi in forma compiuta attraverso l’obiettivo delle telecamere.
Si è sempre detto che la navata di San Pietro servisse ad indirizzare i pellegrini verso la tomba del primo apostolo e che la piazza di Alessandro VII desse una forma definitiva al grande abbraccio della controriforma. Ma in anni recenti Piazza San Pietro era diventata un serraglio, il colonnato berniniano un enorme check point con regole di transito simili a quelle dei grandi aeroporti intercontinentali. Dopo ore di attesa fra le transenne sembrava legittimo domandarsi: “a che ora parte il prossimo volo per la città di Dio?”
Conquistata a fatica la Basilica, al suo interno non se ne percepiva più l’unità. C’erano percorsi obbligati, aree precluse ai visitatori, gruppi organizzati come truppe d’assalto. Tutto sembrava piegato ad una logica di consumo. Altro che immersione nell’arte del Seicento, da San Pietro se ne usciva sconnessi, come da un quadro cubista. La mobilità globale aveva messo a dura prova questo spazio, tanto da farlo sembrare insufficiente come una qualunque infrastruttura obsoleta, da ricostruire altrove, dove non incombono limiti. Per ricordare l’intima solennità della Basilica dobbiamo tornare indietro di almeno vent’anni, quando l’interno di San Pietro non era stato ancora aggredito dai troppi (e simultanei) usi turistici e liturgici. Per quel che mi riguarda sono ricordi dell’adolescenza. A me allora sembrava che le proporzioni classiche della Basilica vaticana non rendessero ragione della sua grandezza. Il baldacchino di Bernini pareva una bizzarria. Un inganno della percezione lo faceva apparire più piccolo di quel che era. Se il disegno architettonico non ricorre a giochi illusionistici, il sistema percettivo del nostro cervello fa di tutto per comprimere le distanze e ricondurre gli spazi monumentali a forme più domestiche. Dal punto di vista di chi guarda dal basso, l’apparato scultoreo diventa una componente dello sfondo architettonico. Gli angeli, i padri della chiesa, la Cattedra di San Pietro, San Longino… sfumano nell’architettura.
Ma la grande scenografia di Bernini si rianima osservandola da un punto di vista non proprio umano, forse angelico, a volo d’uccello, da una profondità di campo che riconquista maestosamente lo spazio circostante. Questo assomiglia al punto di vista di Goethe, il quale nell’autunno del 1786 osservava dall’alto Papa Pio VI in preghiera sotto la cupola, accanto a minuscole creature umane fra le rappresentazioni incombenti dell’arte barocca.
È un punto di vista analogo a quello dell’obiettivo che durante la messa di Pasqua 2020 inquadrava il ricamo marmoreo del pavimento dall’alto della navata centrale e il baldacchino bronzeo sullo sfondo, cornice della luminosa Cattedra di San Pietro. Le telecamere ai lati dell’altare rilanciavano le immagini giganti delle sculture, le rendevano visibili all’umanità urbi et orbi, mettendole in rapporto con la finitezza umana del pontefice e dei prelati solitari, piccoli e ricurvi sotto di esse.
Avvicinarsi alle opere d’arte di San Pietro, come in ogni altro luogo del mondo, può essere frustrante se il contesto non ne favorisce la percezione. Ora è del tutto impossibile frequentare chiese, musei e mostre, ma in questa Pasqua di pandemia le rappresentazioni televisive hanno dato un rilievo insolito all’arte di Bernini, svelandone il dinamismo teatrale all’interno del luogo simbolo della cristianità, meglio che se fossimo stati là di persona. Sarebbe piaciuto a Bernini vedere le sue sacre rappresentazioni diventare tele-cinematografie. Se ne avesse avuto possibilità, il Maestro della scultura barocca si sarebbe fatto regista. Con un gesto di reciprocità, i registi di cinema e TV potrebbero rifarsi un po’ di più, e con maggior convinzione, all’arte di Bernini.