ritrovare l’immaginazione in una culla preistorica

di Matilde Puleo

Uno dei massimi esperti del periodo mesolitico in Europa come Grahame Clarke sosteneva che gli uomini del paleolitico avanzato dovevano senz’altro avere l’immaginazione necessaria non solo per dipingere in modo sempre più naturalistico ma per rappresentare in modo simbolico il pronunciato intensificarsi dell’autocoscienza e della coscienza dell’ambiente in rapporto al gruppo sociale. Un’immaginazione che credo possa intendersi alla maniera di Italo Calvino, come forza speciale che fa comparire qualcosa laddove prima non c’era niente. 

Riflettendo su ciò che è stato creato dall’immaginazione all’epoca delle caverne, sul valore di quei segni e su quello del disegno, non si può non soffermarsi sui possibili elementi di continuità tra segno e codice, ovvero tra disegno e scrittura così come suggerito da Silvia Ferrara. Nel suo ultimo libro su Il Salto abbiamo potuto addentrarci nelle caverne di cinquantamila anni fa andando a cercare come nasce un segno agli albori della civiltà.

Scrivendo recensioni di libri e articoli nei quali l’interesse sta a metà strada tra il pensiero e il disegno, si arriva ad avere la prova che la creatività non va in sequenza e soprattutto non segue uno schema anche se richiede gradualità. Se dunque si volessero mettere a punto un po’ di materiali che mi sono stati utili, alcune riflessioni potrebbero portarci lontano sia nel tempo che nello spazio.

Sappiamo ad esempio, che l’acquisizione del linguaggio è intimamente legata al gioco; che i bambini la fanno propria attraverso l’esplorazione, l’esercizio e la sperimentazione. Molti pedagoghi affermano che c’è qualcosa nel gioco che stimola la capacità combinatoria in generale e la linguistica in particolare. Oggi sappiamo che per poter parlare del mondo in modo combinatorio, il bambino deve saper giocare con il mondo con la facilità che l’atteggiamento giocoso favorisce.

Sappiamo che il pensiero e l’immaginazione spesso iniziano sotto forma di un dialogo e che senza opportunità per realizzarlo il loro sviluppo può risentirne; e che sia il gioco che il linguaggio ci permettono di conoscere la realtà, manipolandola, dominandola e persino evocando oggetti assenti attraverso la memoria. Il gioco dell’arte ci dice che il piacere primario di un bambino che scarabocchia è quello visivo. La stimolazione visiva sperimentata dal bambino va oltre la vista o le specifiche questioni relative all’illuminazione: gli studi sul disegno infantile prodotti dai neuroscienziati come Beau Lotto nel suo “Percezioni” ci insegnano che quello che si percepisce è la conseguenza di ciò che ci si aspetta di percepire e alla cui percezione siamo abituati.

Il gioco di assegnare valori simbolici ai segni è quindi per i bambini una costruzione precaria, gustosa e sospesa sul nulla, fatta in gran parte di parole e gesti, che permettono di esplorare altri territori. E come le storie, quei segni sono l’invenzione di uno spazio e di un tempo alternativi all’interno dello spazio-tempo reale, un artificio che permette ai bambini di arricchire e aumentare la propria realtà, di abbandonarla o trasformarla in modo inaspettato senza bisogno di andare lontano, ma con grandi potenzialità per allargare i confini del mondo possibile e ampliare quelli del proprio spazio. I 20 scarabocchi-base studiati da Rhoda Kellog nel suo libro “Analisi dell’arte infantile” (1979), oltre a dirci che la facoltà di disegnare è naturale e istintiva, sottolineano anche che il disegno infantile ha a cuore il progetto generale. Sembrano avvalorare la tesi secondo la quale, la capacità di vedere un tutto, (ovvero una gestalt), è innata; mentre la capacità di vedere le singole parti si acquisisce con un continuo esercizio intellettuale e visivo.

Dall’altra parte, gli studi del mondo preistorico procedono a passo spedito e – come accade a molte discipline – si avvalgono delle informazioni provenienti da discipline che indagano il cervello dell’uomo cercando nella neuroscienza ciò che non è possibile leggere con il filtro della storia. In questo modo, i paleo-archeologi ci confermano che la scrittura, il gioco e la nascita della storia dell’uomo hanno molto in comune. Nell’uomo preistorico predominano gli stessi motivi astratti e gli stessi motivi figurativi rudimentali che comunemente troviamo nei disegni dei bambini contemporanei a riprova del fatto che per noi umani fare segni è un fenomeno istintivo e universale, che va oltre i contesti, oltre i confini e le difficoltà, al punto che studiarli è una sfida intellettuale ma non solo.

Ogni archeologo però è ritornato da quelle grotte con una serie di domande e di questioni che erano frutto del tempo nel quale egli viveva e dunque di quelle grotte molto è stato detto e tanto si è interpretato forzando la mano. Quegli studiosi hanno associato cioè a quei normali diagrammi studiati dalla Kellog e alle normali associazioni fatte dai bambini i simboli della fertilità, della maternità o della vagina, leggendo in quei segni soltanto… ciò che si aspettavano di percepire e dunque le proprie idee.

È così che quelle immagini preistoriche (semplici gestalt astratte come dice la Kellog) sono diventate per gli studiosi come Sigfried Giedion (1888-1968), storico e critico dell’architettura, terribili immagini di “donna” che lo portarono ad ammettere che in quel che vedeva fortissimo era l’imprinting di Freud e Jung che lo avevano molto influenzato, così come era accaduto agli archeologi a cui lui faceva riferimento.

Ed effettivamente, le rappresentazioni di divinità femminili, create da quei paleo-artisti sono dal punto di vista psicologico raccapriccianti! Viste invece come arte infantile non possono che sembrare piacevoli sperimentazioni di segni sviluppati a seguito di giochi fatti coi diagrammi o con gli elementi circolari studiati dalla Kellog. La deformazione della figura femminile potrebbe essere espressione di libertà estetica, piuttosto che il segno dell’anormale sviluppo ghiandolare di seni e fianchi o la prova dell’atavico timore maschile di una “grande madre”.  Questo atteggiamento moderno verso l’arte primitiva, legge con filtri moderni l’antichità e vuole vedere adoratori del dio sole laddove ci sono segni circolari mandalici i quali – come ci dicono di nuovo i disegni infantili della Kellog – sono tutt’altro che segni con “finalità religiosa”.

È così che ci accorgiamo di quanto la paleo-archeologia continui a non essere una scienza statica: essa va con i tempi, va con il vento intellettuale del momento, influenzata dal progresso della conoscenza. Ciò non è solo rimarchevole per l’archeologia ma carica di prospettive per l’avanzamento della conoscenza in genere. Sapere che chiunque si occupi di segni visivi e di disegno, diventa virtualmente parte integrante di un grande studio multidisciplinare nel quale gioca un ruolo importante tanto la storia, quanto la pratica artistica e lo studio scientifico più completo, chiama in causa ognuno di noi. A monte di tutto questo miscuglio di considerazioni scientifiche c’è la convinzione che le immagini e le diverse forme di esperienza visiva debbano essere studiate non più in termini astratti, ma come parti integranti del tessuto della cultura, come oggetti culturali e sociali in grado di determinare ancora molte delle nostre scelte di vita. Non solo, chi intende l’immagine disegnata non più come semplice oggetto del nostro sguardo ma come entità attiva è in grado di rintracciarlo spaziando dalle miniature bizantine, al fotocollage fino alle sperimentazioni di poesia visiva del Lettrismo con la convinzione che esista una funzione conoscitiva nell’accostamento e nella messa in sequenza di tutte le proprietà materiche del disegno e delle modalità tecniche adeguate a sfruttarne le potenzialità espressive. Ciascuna linea, tracciata sopra un foglio di carta, corrisponde a una precisa quantità di materia (il pigmento), per cui occupa uno spazio e possiede una forma. II contorno rivela il dialogo intimo e serrato che la linea intrattiene con la forma, nella loro reciproca corrispondenza: come la linea si piega alla plasticità della forma, così quest’ultima offre il fianco ai vari lineamenti. Tra l’una e l’altra esiste un indissolubile legame, un’interazione di infinite sfumature espressive al punto da farci dire che la forma può possedere un’infinità di linee che corrispondono all’infinita varietà di emozioni. A tale scopo è facile che ci si scopra abili nel verificare quanti slittamenti di senso avvengano assegnando contorni diversi alla stessa forma, e allo stesso tempo incapaci di determinare tali effetti, come invece fa l’artista.

I segni lasciati sulle grotte del paleolitico non sono “informazionali” ma sono immagini disegnate che sanno esprimere senso, generare sapere e di fatto sono tutto quello che abbiamo per capire i lunghissimi, graduali salti che abbiamo fatto come esseri umani. Per questo vale la pena guardarli con attenzione e studiarli. Esattamente come fa chi si occupa di segni e di tracce da lasciare su un libro d’artista, quei segni sono espressione di un’opera polifonica in cui la narrazione testuale e visiva si accordano in modo perfetto. Per entrambi i disegnatori cioè non è necessario stabilire che linguaggio e immagini corrispondono a media diversi: non sono interessati a stabilire opposizioni tra regno visivo e regno linguistico. Quelle grotte e il libro d’artista sono esempio di design totale, dove ogni elemento conta per costruire senso. Entrambi concepiscono il disegno come fase iniziale di un processo operativo e ideativo che nella fase progettuale anticipa e poi attraversa fornendo o inventando una struttura o un percorso e infine segue, nel senso che copia, simula e verifica, qualsiasi cosa sia stata pensata e costruita dall’uomo.  È grazie a questi processi che il disegno sta nella parola, precede la scrittura, ed è contemplato nella calligrafia, nell’ideografia e nel lettering.

Non solo. Il disegno afferma che ogni atto del guardare è anche un atto di lettura e che ciò che sperimentiamo osservando i segni è la storia di un rapporto tra lo spazio, il testo e le immagini, sia in senso grafico che semantico. Quegli antichi segni nelle caverne allora, sono i nostri gesti, le nostre parole, il nostro specchio e dunque – in ultima analisi – sono l’atto di nascita di ciò che gli archeologi definiscono simbolo o pensiero simbolico. Il quale, in una parola è astrazione.

Nel caso di trentamila anni fa si è trattato di un’astrazione vera e propria, presa dall’esperienza dell’incontro reale e fisico con un leone o un bisonte, trasposta su una superficie piana.  Nel caso di un artista contemporaneo, ci si accorge che se si vogliono creare molteplici interpretazioni dei segni è notevolmente più complessa la sfera delle considerazioni storico-filosofiche cui far riferimento, specie in un’opera costituita da segni astratti che non voglia avere alcuna finalità, che non voglia sostituire codici comunicativi e che anzi, provi a portare avanti le complesse tematiche lasciate aperte dal Lettrismo, o i nodi ancora da sciogliere dell’Estetismo di inizio Novecento, delle sperimentazione concettuali del Minimalismo e delle formule ancora cariche di significato come la decadente “art pour l’art”.

Ciò che ci suggeriscono i segni preistorici è che quegli uomini devono aver visto la teatralità dello spazio e del vuoto invitando alla lettura ad alta voce, giocando con dialoghi, onomatopee, ritmi, giochi poetici sulle sonorità, esattamente come suggerisce Silvia Ferrara nel suo libro. L’archeologa Genevieve von Petzinger ha cominciato a studiarli e a farne delle categorie con quasi centocinquanta caverne in tutto il mondo. Ha quindi notato che ci sono degli schemi comuni, che molti segni, per la precisione trentadue, sono gli stessi, osservati in tutti i continenti che ci hanno regalato caverne e figure paleolitiche. Secondo lei quelle figure e questi segni non sono semplicemente figurative, ma immagini simboliche. Questi segni potrebbero essere il patrimonio più antico del nostro sistema di comunicazione. Potrebbero essere i codici più antichi che abbiamo. Potrebbero essere le nostre radici per accettare che il disegno è naturale tanto quanto il movimento e che è questo ciò che lo rende archetipico. I venti scarabocchi-base e i diagrammi studiati dalla Kellog possono senza alcun dubbio essere considerati archetipici o universali.  Quel che è certo è che questi segni non sono espressione di una mentalità nutrita da una specie di “ansia cosmica”, perché hanno in prima istanza come finalità quella del piacere estetico.

Le due questioni che sembrano essere particolarmente interessante è che, da un lato, le lettere hanno la loro prima culla nelle immagini, nelle storie e negli ingranaggi del pensiero di uomini e donne che creavano grammatiche avanzate. L’altra non meno affascinante è che all’origine della scrittura non ci sono solo la membrana che tiene insieme i nostri neuroni e non c’è solo la mente, ma il corpo per intero, al punto che per capire cosa fa la mente e il cervello per andare avanti e progredire abbiamo bisogno di vedere cosa succede nell’apparato muscolare, nella conformazione delle ossa di tutto lo scheletro e nella sua capacità propriocettiva in genere. Insomma, ancora una volta sia Neanderthal che il nostro bambino ci stanno dicendo che tra pensare e disegnare non c’è differenza alcuna. L’essenza della linea è quella di essere un distillato di pensiero. Una specie di “atmosfera narrativa” (come la chiama Silvia Ferrara), ricolma di storie di magia, di trasposizioni e sovrapposizioni significative proprio in ragione di convivenze e passaggi di materiale genetico e cognitivo tra specie diverse scambiati proprio dentro quelle caverne.

Nella grotta oscura, il nostro Neanderthal traccia i segmenti della figura di un bisonte senza averlo lì davanti, per rievocarlo dalla memoria e riprodurre le sue proprietà, la sua natura. Cosa succede nella sua mente?  Trovo che per rispondere a questa domanda possa essere ancora molto interessante il pensiero di Ernest Kris quando afferma che l’arte è principalmente la comunicazione tra l’es e l’io. Uno strumento che permette all’individuo di proiettare all’esterno, in un’opera, un’immagine interna. In questo modo, la creazione ha lo scopo di essere percepita. In effetti, anche secondo la Kellog, andando a cercare le forme estetiche spontanee dell’infanzia si liberano le stesse energie liberate da bambini. Ciò che è diverso è che la regressione “autoregolata” che si dovrebbe percorrere dovrebbe farci capire quanto l’uso che ne facciamo di quei segni sia determinato dalla maturità emotiva ed artistica di chi li utilizza. Ogni individuo possiede le immagini dell’arte infantile, ma solo l’artista usa consciamente e con disciplina quei segni, portandoli alla luce come aspetti formali del suo pensiero e delle sue opere.

La vera questione è che oggi sappiamo che la scrittura registra i suoni di una lingua e che per definizione essa è un sistema. Il che implica che ogni scrittura ha un numero di segni che corrispondono per convenzione a un suono fisso. Se cambiamo la corrispondenza segno-suono, variamo il sistema. Allo stesso modo anche le immagini sono cose spinose perché ugualmente ci aprono al complesso gioco dell’interpretazione. A questo punto però, in un periodo storico come il nostro, caratterizzato dal suo essere post del post, il tema è che anche le immagini sono più vicine a un sistema di codice comunicativo che non alla sfera della casualità incosciente. In questa nostra epoca ipertecnologica e dunque post human, ci si muove esibendo lo scarto tra linguaggio, lingua e scrittura a partire dalle loro caratteristiche (iconicità, sillabacità, sintassi) cercando considerazioni di tipo neuroscientifico, sul rapporto tra ipotalamo e amigdala e sul ruolo che hanno e hanno avuto l’immagine e la figura. Ci convincono le teorie della psicologia della percezione e della neuroscienza, specie quando ci dicono che ci sono schemi figurativi che danno al disegno il valore di una codificazione che elimina il concetto di una visione innocente e “naturale” dei fatti visivi. Insomma, il disegno è una chiave capace di aprire certe serrature biologiche o psicologiche in modi ancora tutti da sperimentare. Checché ne dica Neanderthal!

Bibliografia

Brusatin, M, Storia delle linee, Torino, Einaudi, 1993

Ferrara, S, Il salto, Feltrinelli 2021

Freedberg, D. E Gallese, V, Movimento, emozione ed empatia nell’esperienza estetica, in A. Pinotti, A. Somaini (a c. di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Milano, Cortina, 2009

Grahame C, la preistoria del mondo, Garzanti,1986

Kellogg, R, Analisi dell’arte infantile, Milano, Emme Edizioni, 1979 Lotto, B, Percezioni, Bollati Boringhieri, 2017