Il visibile parlare. Giovanni Papini e le arti visive

di Giovanni Occhini

Il visibile parlare. Giovanni Papini e le arti visive
a cura di Tommaso Casini
ISBN: 9791259551238
16,5×24 cm, 176 pp in bn
Anno: 2023
29 euro
https://www.scalpendi.eu/catalogo/senza-categoria/2487/

L’assidua frequentazione di Papini con artisti suoi contemporanei è un dato noto ed acquisito agli occhi della critica ormai da diversi anni. Basterebbe la lunga e calda amicizia con Ardengo Soffici a confermare un’evidenza che d’altra parte è testimoniata dai frequenti scritti di natura artistica pubblicati da Papini nel corso della sua annosa carriera di pubblicista e autore tout court. Le tele e le sculture collezionate, le ekphrasis e gli elzeviri confezionati, tutto congiura a delineare il profilo di un Giovanni Papini non solo amatore delle arti, ma anche sagace critico di cose figurative. Una cospicua collezione di pitture e sculture, dagli olii degli intimi Soffici e Spadini fino alle plastiche di Griselli e Medardo Rosso, decorava gli ambienti delle varie case abitate dallo scrittore. Una dimensione collezionistica che certo in futuro varrà la pena di indagare, soprattutto alla luce delle recenti pubblicazioni relative al rapporto intrattenuto da Papini con le arti visive. A ridosso del volume antologico curato da Tommaso Casini Sull’arte e gli artisti che ha meritoriamente raccolto una vasta selezione degli scritti a tema figurativo del poeta fiorentino, sono infatti usciti gli atti del convegno tenuto nel 2022 presso l’Università IULM di Milano dedicati a Il visibile parlare. Giovanni Papini e le arti visive. I numerosi contributi sono a firma di studiosi di varia formazione e interessi, come richiedeva un argomento di chiara natura interdisciplinare. La giornata si proponeva il chiaro obiettivo di esplorare uno dei tratti tipici dell’intellettuale Papini, forse la sua peculiarità più vistosa, ovvero una costante e fertile apertura verso i più disparati campi d’interesse e di azione, analizzata qui nella sua manifestazione squisitamente artistica. Paolo Giovannetti, nel ruolo di direttore del Dipartimento che ha incoraggiato e promosso questa felice congiuntura di studi figurativi papiniani, offre nella sua Presentazione una preziosa chiave interpretativa della giornata, che è insieme appassionata e complessiva lettura degli atti. L’italianista nota come Papini, estensore nel 1920 insieme a Pietro Pancrazi dell’antologia Poeti d’oggi che accoglie molta prosa narrativa accanto ai versi, legittimi e promuova una forma di poesia che, a prescindere dal genere designato, si configuri come puro impressionismo lirico-descrittivo, spesso di matrice ecfrastica. Egli inoltre rileva come il Papini studiato qui sia soprattutto quello del “ritorno all’ordine”, e che questa dimensione cronologica e intellettuale, tradizionalmente negletta, ne risulti problematizzata, arricchita com’è della sfera degli interessi artistici.

La pubblicazione degli Atti si avvale dell’ausilio di un valido consuntivo di Sandro Gentili che al contempo sintetizza e introduce la materia del convegno. Gentili non manca d’altronde di aprire una interessante e originale parentesi sui prodromi e la preistoria di questa fervida passione per le arti visive e sulle modalità del loro intervento nella pratica scrittoria di Papini; e lo fa dai testi ineludibili per capire tutta l’opera di Gianfalco, critica e creativa, poetica e filosofica, ovvero il Diario 1900 e il giovanile epistolario con Prezzolini. Vi si registrano le frequenti visite a chiese e monumenti fiorentini e del contado, le conseguenti riflessioni intorno alla eventuale filiazione fra arte greca e rinascimentale, ma soprattutto è dato percepire come questa consuetudine si rifletta sulla scrittura, facendo scaturire fin dalle prime prove una particolarissima attitudine ad adottare dispositivi di tipo ecfrastico, quella “visività antinarrativa” e squisitamente lirica (pittorica) che è cifra di tanta sua prosa. Saremmo tentati di soffermarci sulla acutezza degli interventi di Bruni e Romanello, che esplorando ognuno dal proprio punto di vista, rispettivamente narrativo e saggistico, la produzione papiniana, offrono un suggestivo spaccato di come il poeta utilizzi le arti e le sue tecniche, gli stimoli del milieu artistico fiorentino a fini di ricreazione immaginativa di una scrittura che si fa disegnativa e cromatica. Le novelle giovanili trovano un calzante parallelo visivo nel simbolismo maeterlinckiano di Charles Doudelet e nella sospensione metafisica di un Giorgio De Chirico che sembra aver attinto direttamente a certe atmosfere e scorci del narratore. Memorie galleristiche agiscono sulla penna papiniana con discreta frequenza, come nel racconto L’Ultima visita del gentiluomo malato, dove lo stimolo pittorico si risolve nella diretta evocazione del Ritratto di gentiluomo malato allora attribuito a Sebastiano del Piombo e ora ascritto a Tiziano, oppure nello Specchio che fugge, dove ad essere richiamati sono i Prigioni del futuro nume tutelare Michelangelo. D’altro canto, Bruni esamina quanta importanza svolga la “nuova modalità dello sguardo” papiniano, non più esterno come nel fantastico ottocentesco, ma tutto teso a ricreare internamente, emozionalmente la visione, con chiare finalità perturbanti. Al centro di tutto è il mondo interiore, lo spirito, lo sanno bene i lettori di Papini, che giusto in questi anni affida alla riflessione pragmatista e alla sua declinazione “magica” un ruolo centrale nel proprio apostolato intellettuale. Alessandro Romanello avvicina la medesima tematica, quella della ricaduta della cultura visiva papiniana sulla propria scrittura, da un’altra angolazione, quella ipertrofica e quasi disorientante del Papini saggista e critico letterario, infaticabile “promotore di cultura” e scopritore di talenti. Qui ci imbattiamo in quello che possiamo senza tema di dubbio definire un pittore poeta, uno scrittore che sulla scia della più grande tradizione figurativa abbozza, ritrae, schizza con il verbo, sgrossando profili critici di ineguagliabile e indimenticabile acutezza. Alla serriana indagine sulla pagina Papini sembra preferire la fisionomia rivelatrice, il paragone illuminante, la metafora artistica che funga da epitome e suggello di un’opera. E, sintomaticamente, tale dispositivo visivo di carattere euristico si attiva al suo meglio proprio con gli autori prediletti: dalla “plastica musicale” dei bassorilievi keatsiani fino alla prosa d’arte sofficiana che a stento è distinguibile dalla produzione pittorica dell’uomo del Poggio. Maupassant è esaminato attraverso la specola delle accensioni renoiriane e lo stesso Serra viene dolorosamente evocato nella memoria in un testo dal forte tasso di visività.

Francesca Golia misura il peso di scrittori come Kierkegaard e Sant’Ignazio nell’esperienza letteraria e devozionale della Storia di Cristo, testo in cui la pratica visiva è centrale a fini religiosi prima ancora che letterari. Si scopre così che gli Esercizi spirituali del santo spagnolo, meditati da Papini già prima della conversione, furono decisivi nell’elaborazione di una strategia apostolica centrata sulla costruzione immaginativa di un modello, il “vero volto” di Cristo, delineato nelle sue essenziali fattezze e quindi utilizzabile come concreto strumento creativo. Il brillante intervento di Andrea Aveto ci consente di esplorare l’interessante parentesi romana di Papini del 1917-19, quasi un tentativo, presto abortito, di ricerca di un porto sicuro, di un impiego stabile durante le calamitose intemperie della guerra. Qui, come caporedattore della terza pagina del neonato Tempo, ebbe modo di confermarsi nell’ormai sperimentato ruolo di fine ed equilibrato catalizzatore di apporti, scritture e temperamenti di varia natura, connaturato a ogni lavoro di matrice redazionale. In particolare, risultano paradigmatiche del modus operandi papiniano le collaborazioni romane con Carlo Carrà e De Chirico, le quali palesano la concreta indipendenza del Papini organizzatore culturale rispetto alle consuete dinamiche amicali, in favore di un giudizio sostanzialmente indipendente e critico. All’interno della temperieromana Papini portò avanti una politica editoriale delle arti che privilegiava le affettuose fragranze secentesche dell’arte di Armando Spadini, vecchia conoscenza fiorentina, “impressionista idiota” secondo il sintomatico giudizio del Pictor Classicus. Di contro, il silenzio sotto cui passò la Mostra d’arte indipendente pro Croce Rossa inaugurata il 26 maggio 1918 alla Galleria dell”Epoca” sortì le ire di Carrà e di De Chirico che a quella collettiva esponevano. Un allontanamento che se con Carrà potrà essere facilmente colmato, porterà relativamente a De Chirico a un fatale deterioramento dei rapporti fino alla famosa stroncatura longhiana della Metafisica, Al Dio ortopedico, involontariamente causata dal sostanziale disinteressamento papiniano rispetto alla prima personale romana del pittore di Ferrara. Tutto ciò viene documentato e svolto con singolare acribia e acutezza interpretativa da Aveto, che fa luce su un periodo nodale dei rapporti di Papini con le arti visive.

Dal canto suo, Alessandro Del Puppo si riserva il compito di gettare uno sguardo d’insieme sull’estetica papiniana “riformata” del primo dopoguerra, sottolineando come la visione dello scrittore convertito si sovrapponga almeno parzialmente con le spinte confessionali prima, politiche poi, provenienti da un panorama esterno ed interiore radicalmente mutato. “Arte disumana” era quella che, colpevolmente privata di un qualsivoglia soffio spirituale e di caritas cristiana, rischiava di tornare “natura greggia”, pura oggettività assolta da qualsiasi missione evangelica e confortatrice. Del Puppo notifica giustamente come una simile evoluzione in senso olistico dell’arte moderna, sempre più disinteressata e indistinta nelle cose, non potesse che ripugnare a una tempra essenzialmente “dualistica” come quella di Papini, radicalmente anticrociana già in nuce, e che la conversione aveva reso ancora più impermeabile a suggestioni idealiste. Un Papini reazionario dunque, ma illuminato, tanto distante dalla barbarie estetica moderna quanto diffidente rispetto ad anacronistici recuperi di “vecchiume trito e sfatto”. Un’arte che si configuri come trasformazione del sensibile in trascendente, “rifacimento fantastico delle cose”. E infine meritorio e criticamente illuminante appare l’addentellato del che Del Puppo istituisce con alcuni scritti papiniani, primo fra tutti quello su Oscar Ghiglia del 1926, quasi un manifesto in tal senso, in cui il pittore traduce “in forme e in accordi qualcosa del suo spirito”.

Sulle note di una lieve e spumeggiante tono di cronaca si muove Mario Colleoni nel suo breve e frizzante saggio riabilitativo della figura di Alberto Viviani, prezioso testimone delle giovanili e brigantesche intemperanze futuriste di Gianfalco e compagni. Ci è permesso così apprezzare un dato fondamentale, decisivo per la comprensione del rapporto di Papini con le arti visive, ovvero il timido e recalcitrante assenso concesso dallo scrittore fiorentino al fenomeno futurista. Veronica Pesce pubblica il carteggio perlopiù inedito intercorso tra Papini e il viareggino Lorenzo Viani. Mutila di molta parte delle lettere papiniane, la corrispondenza si dimostra altresì preziosa per arricchire l’eccentrica e irregolare fisionomia umana di Viani, la cui produzione letteraria aspetta ancora di essere inquadrata sotto una consona lente critica. Un dato è comunque evidente: in questo scambio si discute pochissimo di arte, ed è difficile ipotizzare che sia stato Viani ad impostare il tono e gli argomenti della dialettica epistolare. Un simile rilievo sta a dimostrare come Papini, spesso, si ponga in una posizione di volontaria subalternità rispetto all’argomento artistico, decentrato, come notato da Sandro Gentili, rispetto a una disciplina che egli ostenta reiteratamente di conoscere poco. Verrebbe facile pensare che si tratti di mossa strategica per guadagnar libertà di discorso e margine di movimento, per assumere il travestimento, insomma, di un proverbiale dilettantismo che sempre si rivela attento e competente.

Di grande interesse critico risulta poi l’originale prospettiva “d’oltremare” e coloniale assunta nei saggi di Marta Nezzo e Giulia Beatrice. Qui la categoria primitivistica, così importante per gli esiti di tanta arte primonovecentesca, viene declinata nella funzione Papini con modalità originali e affatto scontate. Il fil rouge che tiene insieme i due interventi è la presenza di ecfrasi quale snodo essenziale per la comprensione dell’approccio papiniano alla tematica coloniale. Due prose poetiche degli anni dieci, frammenti ecfrastici di grande pregnanza interpretativa, si accordano nelle analisi della Nezzo e di Beatrice nel fornirci una chiave fondamentale per rileggere il Papini cultore dell’altro, flâneur curioso di esotismi. Marta Nezzo, prendendo spunto dai giovanili interessi positivisti dello scrittore, analizza la ricaduta che questi ebbero nell’acquisto da parte di Gianfalco di due statuette “negre” a Parigi probabilmente nel 1914, in piena epoca lacerbiana. I manufatti e il relativo testo finzionale ispirato da questi ultimi, Feticci, rivelano come i concetti di alterità e sopratutto di “manichino”  inteso come uomo primitivo abbiano influenzato profondamente il lessico mentale di Papini, già formato alla scuola antropologica di Regàlia e Mantegazza. “L’uomo secondo”, il selvaggio dell’inconscio, l’”incivile” di genio, tutti concetti propugnati dal Papini incendiario di quel torno d’anni si scoprono in parte figli del “Patagone” visto alla Specola dal giovane ragazzo ancora in odore di scientismo. Il contributo di Giulia Beatrice cerca di analizzare il retaggio più spiccatamente sociologico e politico osservabile nel ciclo della “Sala dei manichini” realizzato da Soffici nella casa di Papini a Bulciano nel 1914. Prende così avvio un discorso su come gli stereotipi visivi e linguistici nella descrizione del corpo africano siano fortemente debitori della cultura coloniale umbertina e di primo Novecento. I testi di Nezzo e Beatrice si muovono entrambi agilmente fra questioni estetiche e nodi sociopolitici e antropologici, sulla falsariga della migliore critica figurativa e letteraria sulle avanguardie storiche.

La passione di Papini per il ritratto (neo)rinascimentale e i frequenti pellegrinaggi in visita alle glorie italiane scolpite presenti nelle piazze fiorentine consente a Tommaso Casini di aprire un interessante squarcio sull’immagine di Rinascenza coltivata dallo scrittore all’altezza del suo impegno come presidente dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento. Un Rinascimento che trova nelle figure di Leonardo, Michelangelo e Dante i propri numi tutelari, anche plastici (nel salotto dell’ultima abitazione di Papini in via Guerrazzi erano presenti due busti del poeta e dello scultore). All’interno dell’INSR si portò avanti un’idea di Rinascimento che trovasse in una “nuova materializzazione armonica del cristianesimo” il proprio fulcro e asse portante. Un Rinascimento cristiano, dunque, escogitato e meditato nelle sale appositamente decorate della sede di Palazzo Strozzi, dove si trovarono a collaborare figure del calibro di Garin, Kristeller, Baron e Momigliano. Il pur turbolento arco cronologico (1937-1943) durante il quale si concretizzò l’avventura dell’Istituto e della connessa rivista “Rinascita” portò, come segnalato da Casini, importanti frutti sotto forma di contributi e volumi che avrebbero svolto un ruolo non secondario negli ulteriori studi post bellici. Il peculiare e ondivago rapporto di Papini con il cinematografo è esplorato da Gianluca della Maggiore: da diabolico e rappresentativo strumento di un progressivo e inesorabile regressus ad uterum dell’uomo contemporaneo, pura visione che non richiede critica riflessione, il concetto negativo di cinema assunse nella pratica una concreta dimensione progettuale. Gli incompiuti tentativi di sceneggiatura per due films su Santa Caterina e San Francesco si inseriscono perfettamente in una visione di cinema come potenziale mezzo al servizio del suo cattolicesimo antimoderno. D’altronde, dagli appunti dei tardi Diari, eloquente specchio dell’intimo travaglio umano e creativo di un Papini ormai stanco e disilluso, si evince come nella sostanza si fosse mantenuta un’opinione negativa sul cinema. In conclusione la pubblicazione di questi preziosi atti ci permette di disporre di un’inedita panoramica su un tema in precedenza poco o male indagato, avendo altresì il pregio di fungere da accattivante abbrivio per studi su temi specifici, quali, per esempio, quello di Papini collezionista, o per la pubblicazione delle nutrite corrispondenze tenute dallo scrittore con artisti come Llewelyn Lloyd o Ugo Bernasconi. Sarebbe inoltre stimolante vagliare in questa prospettiva i testi di maggior pregnanza visiva ed ecfrastica, tra i quali è doveroso annoverare la splendida triade di libri di poesia in prosa e in versi del secondo decennio del secolo. Un campo, quello del Papini scrittore “figurativo”, amatore d’arte, corrispondente e amico d’artisti, che può trovare in questi atti un augurale punto di partenza e un auspicio per la definitiva riabilitazione critica di questo poliedrico e complesso intellettuale.