Henri Focillon en son temps. La liberté des formes

di Gaetano Curzi

Annamaria Ducci, Henri Focillon en son temps. La liberté des formes, Presses Universitaires de Strasbourg 2021 (Historiographie de l’art)

Annamaria Ducci, docente di storia dell’Arte all’Accademia di Belle Arti di Carrara, ha colmato una lacuna storiografica ed editoriale dedicando una monografia ad Henri Focillon, pubblicata in una collana dall’accattivante grafica vagamente anni Settanta diretta da Roland Recht  che tramite l’insegnamento di Louis Grodecki discende proprio da quei rami. Un incrocio di destini personali cui non sfugge la stessa autrice che in epigrafe al volume ricorda il suo maestro Enrico Castelnuovo, il quale scrisse la prefazione all’ultima edizione italiana di “Vita delle forme” e “Elogio della mano” e per decenni portò avanti un dialogo serrato per temi e metodi con la storiografia artistica francese.

Quello degli incontri – con persone e luoghi – per certi versi sembra essere la cifra di questo lavoro e fin dalle prime pagine il personaggio emerge vivido dalla ricostruzione dell’ambiente che formò i suoi eterogenei interessi culturali e accese la sua passione politica.

Figlio dell’incisore Victor Louis, Focillon (1881-1943) scelse come argomento per il suo dottorato Giovan Battista Piranesi di cui colse l’eterodosso rapporto con l’antico, analizzando le componenti visionarie delle architetture raffigurate con un’attenzione alla storia delle forme che caratterizzerà i lavori successivi, nei quali l’interesse nei confronti dell’incisione rimase quasi come una pericope. Fu d’altronde quello su Piranesi solo il primo di molti lavori che alternano monografie su artisti come Benvenuto Cellini, Raffaello o Piero della Francesca a spunti di carattere museologico scaturiti anche dal suo impegno di direttore del Musée des Beaux-Arts di Lione.

La scelta degli argomenti tuttavia non deve trarre in inganno, non ci troviamo di fronte alle scelte di uno storico dell’arte di interessi tradizionali, anche se metodologicamente aggiornato. Certamente il saggio su Hokusai (1914) potrebbe rientrare nel filone dell’analisi formale dell’incisione e del gusto orientalista che ancora agli inizi del Novecento pervadeva la Francia ma il testo sull’arte buddista del 1921 ci rivela indiscutibilmente uno sperimentatore capace di applicare le sue idee forti a qualunque tema e a qualunque epoca o espressione della cultura artistica.

È proprio in questi anni che i suoi studi si indirizzano sempre di più verso il medioevo – basti citare l’Art des sculpteurs romans  e i due volumi su l’Art d’Occident –spingendolo a confrontarsi con l’ ingombrante figura di Émile Mâle e con il suo rigore metodologico cui contrappone un approccio fenomenologico, anche se non in senso strettamente husserliano, sempre alla ricerca – in questo come Mâle, cui succedette alla Sorbona – di una ermeneutica propria della storia dell’arte.

Come opportunamente sottolineato dall’autrice, che lo definisce uno “studio rivoluzionario”, un turning point è costituito dal saggio del 1929 Apôtres et jongleurs romans dove appare esplicita la relazione tra scultura architettonica ed edificio, ma su questo rimando anche all’interessante capitolo dedicato a Le mythe de Dédale.

Anche se lo spunto per lo studio del 1929 venne dall’archivolto della chiesa di Saint-Pierre-le-Puellier di Bourges conservato proprio nel “suo” Museo di Lione, non sembra certo un caso l’attenzione rivolta al tema dell’acrobata con cui si era già misurato ripetutamente Mâle, che aveva messo in luce la frequenza e il significato di queste iconografie e riscattato il ruolo sociale dei ioculatores,mentreFocillon colse nella predilezione per queste figure una conseguenza del movimento espressivo di cui erano portatrici (come non pensare alle riflessioni di Warburg sulla ninfa e le Pathosformeln?). Un approccio estremamente vitale, come confermano nel secondo dopoguerra le riprese negli studi di Salvini sulla scultura normanna in Sicilia e in quelli di Zarnecki sulla cattedrale di Ely.

Proseguendo nella lettura, la figura di Focillon si sfaccetta ulteriormente nella trama di relazioni con gli studiosi francesi coevi e con i suoi numerosi allievi, primi tra tutti Louis Grodecki e Jurgis Baltrušaitis, che ne sposò la figlia. Ma la sua opera non fu un punto di riferimento solo per una ristretta cerchia di discepoli dediti a studi di scultura romanica, lo dimostra ad esempio il caso del pionieristico volume Peintures romanes des églises de France (1938) e del debito che con questo contrasse Paul Deschamps, che pure su altri temi fu su posizioni diverse da Focillon, per il suo La peinture murale en France. Le haut moyen âge et l’époque romane (1951).

La summa del pensiero di Focillon è però ovviamente costituita dal notissimo La vie des formes dove con una lingua accurata e suggestiva e un mirabile sforzo di sintesi giunge alla codificazione di un metodo che, seppur affinato sugli studi di arte romanica, ambisce a divenire universale. Ma Focillon, umanista proteiforme, è anche molte altre cose e questa bella monografia ce le tratteggia affrontando, tra l’altro, il tema della sua scrittura e del suo disegno, il rapporto “tormentato” con Bergson e quello altrettanto complesso con la cultura tedesca, la sensibilità per il paesaggio, gli anni americani e le relazioni con la storiografia italiana.